giovedì 13 marzo 2008

Se suicidarsi con la lingua sia un mito

Ok, di primo acchito l'interrogativo può sembrare ozioso, lo ammetto: che diavolo c'entra con la Sinistra questa vecchia leggenda urbana del suicidio con la lingua? Ma il senso metaforico del dubbio salta subito all'occhio e sappiamo già che sto parlando di comunicazione e di suicidio politico.
Perché diciamocelo francamente: a sinistra non farsi capire ce piace, ni garba. Ogni tanto ci sentiamo un piccolo gruppo di eletti e iniziate che si parla solo tra noi, con uno stile immediatamente riconoscibile che risale al tempo in cui ci sentivamo parte di una cultura egemone. Godiamo come ricci nell'usare un vocabolario ristrettissimo, fatto di parole che ci sembrano chiare e senza tempo, concatenate in una sintassi che è sempre dichiarativa e mai conclusiva o finale. I nostri volantini non si leggono, perché noi, che abbiamo un senso delle proporzioni che tende all'immenso, pensiamo che ci siano tante di quelle cose meravigliose dentro quei volantini che una che se lo ritrova in mano non si può limitare a leggerlo, ma ci deve incedere dentro. Insomma, un'esperienza mistica e totalizzante tra monumenti storici della lingua de noiartri, spesso monumenti cadenti.
Il *più fantastico* è, e sempre resterà, mercificazione.
Mercificazione è una parola che nessuno ha idea di cosa cavolo voglia dire, ma non perché non la si capisca nella sua etimologia, ma proprio perché non appare più nella sua sostanza: è, credo, da prima che io nascessi che la merce è stata sostituita da beni, servizi e prodotti. Quindi diamo un volantino alla mensa universitaria e ci lamentiamo che la conoscenza, da anni, è sottoposta a processi di mercificazione.
Ora, bimbi miei, abbiamo deciso che non vogliamo farci capire? Bene, ci posso anche stare. Ma a questo punto scriviamo direttamente che "la forma semplice di valore di una merce è la semplice forma fenomenica della contrapposizione in essa racchiusa tra valore d'uso e valore", che non è chiaro ma, se uno s'impegna, qualcosa ne ricava.
Il nostro tentativo, con mercificazione, di attribuire un valore negativo alla svendita della conoscenza, semplicemente fallisce. Fra l'altro, anche se riuscisse, dovremmo ancora spiegare alla gente perché, a nostro avviso, la trasformazione della conoscenza in un agglomerato di beni e servizi vendibili è un male. Perché questa conclusione è tutt'altro che scontata e non possiamo predicare ai convertiti...
Al secondo posto piazzerei tutta la solfa sul liberare cose, persone, idee e chi più ne ha più ne metta. Ci siamo sbarazzati dei concetti della repressione/liberazione ma abbiamo conservato tutta la retorica ad essi legata, usando parole che vogliono dire cose diverse a seconda di chi le pronuncia. Nel frattempo, metà di noi s'è spostata su teorie del controllo, forme-di-vita, sorveglianza, biopotere. L'altra metà s'è frammentata in una settantacinquina di correnti concettuali che vantano gli stessi obiettivi ma centocinquanta modalità di perseguirli - modalità in conflitto insanabile e l'una contro l'altra armate. Quindi, tutti figli degli anni '70, diciamo "liberare" ma intendiamo un numero imprecisato di cose diverse. Resta il fatto che scrivere sul volantino di cui sopra "liberi i saperi" è un tentativo - poeticamente interessante, politicamente discutibile - di paragonare i saperi ai beagle di Morini.
E a proposito di "saperi", io metterei terza in lista la proliferazione del plurale. I saperi... le conoscenze... gli spazi... Sono incapace io, o "la mercificazione dei saperi" è più difficile da spiegare della "mercificazione del sapere"? E ho anche l'impressione che, frammentato il sapere in tanti saperi, abbiamo già accettato la via della loro mercificazione.
Poi ci sono altre cose fenomenali, di più recente acquisizione, come l'onnipresente parcellizzazione. E qui voglio sapere chi è che l'ha tirata fuori, 'sta parcellizzazione. C'è la frantumazione, la frammentazione, al limite lo spezzettamento, la disgregazione, la polverizzazione di un po' tutto quello che vi pare (diritti, tutele sindacali, tessuto sociale, rete idrica), ma perché proprio 'sta parcellizzazione. La parcellizzazione sa di parcelle, e le parcelle sanno di cose da pagare, non di particelle. Ma poi si parcellizzano i territori, le amministrazioni, le gerarchie; la parcellizzazione decentra... insomma, amministrativamente parlando poteva anche averci un senso. E invece stiamo qui a condannare la parcellizzazione dei saperi. Che, con il plurale di mezzo, dà anche l'impressione di una robaccia ridondante: è la suddivisione in piccole parti autonome di una pluralità di ambiti del sapere già autonomi... Ci si riesce a spiegare cosa sia un pratica 'sta cosa qui? Grazie.
Le new entry sono cose tipo partecipazione, protagonismo, democrazia partecipata e partecipativa. Con lo splendido "protagonismo attivo", che penso si opponga al protagonismo passivo (che è quando ti trovi in un palcoscenico senza sapere il perché) e al dispartismo attivo (che è quando ti sforzi di stare dietro le quinte senza che nessuno si accorga di te), mentre è il contrario del dispartismo passivo (che è quando non ti accorgi che sei stato messo in disparte). In ogni caso, roba da teatranti.
E infine, bimbi, la sintassi. Avete mai provato a leggere 'ste robe qui a voce alta? È impossibile. Devi essere tipo Pavarotti, ti ci voglian du' pormoni andini! Accento sulla prima parola e poi vìa tutto d'un fiato fino'n fondo. Revisiòne deipercorsididatticichesioppongallaparcellizzazionedeisaperieallaprofessionalizzazioneprecoce. Si parte con la dichiarazione di principio. Poi, dove uno s'aspetta la spiegazione, n'artra dichiarazione di principio: Va ripensato il sistema delle lauree su due livelli.
Ripensato? RIPENSATO?! RIPENSATO??!! Va cambiato, rifatto, riscritto, abolito, abrogato, cancellato, carbonizzato, demolito, rigenerato, rinnovato, trasformato, modificato, ristrutturato... ma no "ripensato". Eccheccazzo abbiamo fatto per tutti questi anni? Seghe mentali?
E da qui in poi è tutto così. Sostantivo, nessun verbo nella frase man-co-a-pa-gar-lo-o-ro e giù di infiniti sostantivati, nomi in -ità e neologismi in -zione.

Così, bimbe mie, non ce la possiamo fare. Non lo capisco neppure io tra un po'.
E poi, dico io, almeno un incipit accattivante. Io l'elenco di punti "da fare" lo posso anche capire (ma anche no: tanto mica si va al governo, e allora che cacchio la fai la lista di cose "da fare"? almeno un po' di utopismo; tanto si perde, quindi... permettiàmocelo!), ma il cappello, almeno il cappello dovrebbe essere sexy, e invece che ti scrivono?
"Liberare i saperi significa prima di tutto garantirne a tutte e tutti l’accesso, garantire il diritto allo studio e sottrarre la conoscenza ai processi di mercificazione a cui da anni è sottoposta."
Noooo, mannnoooo! Il peggio, proprio il peggio... con quello stramaledetto "-ne" che ci vogliono cinque minuti a capire che minchia ci sta a fare lì. Porcavacca, possibile che si pretenda di garantire di qualcosa a qualcuno l'accesso? No! Si garantisce a qualcuno l'accesso A qualcosa. Quindi "Garantire a tutte e a tutti l'accesso ai saperi: questo significa liberarli". Era difficile? No, non era difficile. E' che vi faceva fatica pensare. E invece c'era 'sta lingua qui, già bell'e pronta, e noi subito zicchete! e se n'approfitta. Se non che ci va di traverso e si finisce suicidi strozzati come Miggs.

P.S.: quest'ultima citazione(*) dovrebbe anche suggerire l'idea che c'è una potenza oscura e persuasiva, di nome Uòlter, che le parole le usa così bene che c'intorta anche a noi.

(*) da The Silence of the Lambs

2 commenti:

Avvocato Cristina Polimeno ha detto...

Questo post mi ha fatto riflettere e fare "autocritica".
Sempre di più la politica ha creato una grammatica e uno slang incomprensibili, il più delle volte, all'esterno.
Spesso ci casco anch'io, come se fosse la cosa più naturale del mondo. E come se ti desse una patina di credibilità con i tuoi interlocutori.
Credo che questo fenomeno abbia però una matrice complessa, che non nasce solo da dinamiche "intellettuali", ma anche politiche e sociali.
Sempre di più l'attività di chi fa politica (per esperienza personale parlo in particolare di quella giovanile) diventa, paradossalmente, un ostacolo nelle relazioni con "l'esterno".
Ignoranza e indifferenza dilaganti creano barriere di gomma difficili da penetrare.
Anche tra chi dovrebbe "stare dalla stessa parte" il dialogo non esiste nella maggior parte dei casi: è una costante sfida, una gara, un esercizio di coerenza e purezza.....tutte cose che ti fanno tendere verso l'alto forse, ma tristemente sterili.....
Questi due fattori mi sono subito saltati in mente mentre leggevo l'articolo.
E mi accorgo che la capacità di comunicare oltre che nelle azioni e nei modi di fare (in cui secondo me l'impegno c'è già e sta dando i suoi frutti), deve passare attraverso delle parole che uniscono le persone, o meglio che garantiscano la massima comunicabilità tra le stesse.

Ma mi è venuto in mente anche altro, ho riflettuto sull'inizio di quest'esperienza di costruzione dei Network Giovani.
Ho rafforzato la mia convinzione che solo l'inclusione, l'elaborazione comune, la CONTAMINAZIONE possano fare la differenza.
Possano renderci dei soggetti in grado di influire sulla società e cambiare le cose.
Indipendentemente dalle proprie identità, e contemporaneamente facendosi forti delle proprie identità, perchè solo da un incontro e uno scontro fra le stesse si produce "crescita" dei soggetti che ne sono portatori.

Cri.

elkappe ha detto...

comunque apprezzo lo sforzo di giovanni,
ma non bastava affermare che il volantino era scritto con un carattere troppo piccolo?
;-P